giovedì 16 settembre 2010

La sinistra e il colore negli ospedali

Piccole riflessioni su come la politica, buona o cattiva, incida sulla vita. A partire da una stanza d’ospedale: fatti raccontati non puramente casuali.

Potere evocativo della parola. Immagine che disgela anfratti della nostra coscienza. A volte capita che la politica non sia tutta uguale. A volte basta un’idea suggerita o una brutta esperienza di vita reale per ripensare alla ragione di un tempo nel quale, a volte per idealità (o chissà per quale antico torto subito), alcuni di noi hanno deciso di accogliere il demone della politica. Quella che trasforma. In meglio.
La politica a sinistra: come idea di riscatto ed umanizzazione della società. La centralità degli uomini e delle donne sui processi economici, sulle leggi dello Stato, sui tempi e sui modi della produzione e della vita.
Hic sunt leones. In un giorno di fine agosto un cucciolo di uomo di poco più di diciannove mesi ha avuto una crisi convulsiva da stato febbrile acuto. Paura e lacrime per un fatto piuttosto comune – così dicono – e privo di conseguenza (così pare). Ricovero in una struttura ospedaliera pediatrica. Cagliari. Sardegna. Italia.
Forse è proprio vero che chi non ha mai lavorato la terra ignora il dolore dei segni sulle mani e sulla schiena. Fatto sta che solo in alcune occasione realizzi effettivamente il Paese nel quale vivi. Altrettanto amaramente constati quanto è ipocrita la nostra società e la sua presunzione di superiorità rispetto ad altre: sala spoglia, asettica, sgombra, grigia. Pochi colori sui muri dell’immediato dopoguerra. Il sorriso di un’infermiera a far da contrasto con la fatiscenza.
Clinica pediatrica. Uno pensa che per definizione debba essere costruita attorno e per i bambini. Ma siamo in Italia. Nessun seggiolone per la pappa. Nessun fasciatoio per il cambio del panno. Lo sciacquone rotto, il soffitto cadente. L’odore tipico dell’ospedale. Quello che ti ricorda minuto per minuto che sei un peso per il nostro sistema lanciato verso la competizione globale. Una sala giochi gestita da volontari. Aperta per un’ora al giorno. Altrimenti sai i costi per un sistema sanitario nazionale che paga fior di milioni i suoi manager. E stai attento a dove parcheggi. Perché davanti all’ospedale – vivaddio – si paga il prezzo al comune dei tagli di Stato: agli enti locali, allo stato sociale, alla sanità.
In definitiva i tagli arrivano – eccome – a quel bimbo, inconsapevole, che ha pensato per tre giorni di essere in villeggiatura. Da grande gli spiegheranno che non era un film sull’Italia ottocentesca.
Abbiamo ascoltato qualche mese fa – distrattamente, come si usa fare nella società della comunicazione – il presidente della regione Puglia proporre la sua ricandidatura raccontando del suo proposito di sottoscrivere un patto con i bambini. Il “mio popolo è quello dei bambini”, suonava – più o meno – nel comizio la voce di Vendola, in un incedere del ragionamento che ha fatto sorridere molti professionisti del mestiere, ombre di un sistema politico invecchiato che hanno perso – da tempo – tanto l’idealità quanto la tenerezza. Classe politica (che brutto termine) che in tanti casi non saprebbe più rispondere, se qualche sfrontato chiedesse il perché hanno iniziato ad esserci.
Ecco: da dove riparte la sinistra? Dai suoi vecchi dirigenti e dalle sue vecchie pratiche e dalle sue vecchie idee? Oppure da un piano per il colore negli ospedali: quelli per i bambini e quelli per gli anziani e quelli per chiunque abbia la disgrazia di imbattersi nella nostra sanità?
Da dove riparte se non da un patto con i bambini, in assoluto la parte più fragile ed indifesa di questa società. Ed attraverso essi da un nuovo umanesimo che guardi al più debole e non da una riedizione – sia pure ammantata di rosso ed ideologie della liberazione – della legge del più forte.

Michele Piras

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